Lo so. Lo so. Mea culpa. Son io che dovrei esser meno critico, accettare che il mondo è diventato (o, forse, in diversi modi, lo è sempre stato) questa feroce illusione materiale, sotto i cui colpi il lirismo si frantuma, come le pareti sgretolate di questa città morente.
Ma, come diceva nonno Whitman: "che il potente spettacolo continua... e che tu puoi contribuire con un verso.". Insomma: "The show must go on" (per dirla con Brian May), non se ne può proprio fare a meno...
E, allora, saranno i versi miei ad attraversare a nuoto le navate: las ruas y las avenidas che salgono su sulle colline e circondano la città vecchia per poi, rapide, discendere verso il porto, il Tago, il mare, l'oceano che sconfina con le americhe...
Così, coi questi versacci che brulicano nel cranio, mi lascio trasportare dai profumi di mariscos, sardinas, bacalhau: grigliati, fritti, stufati, à brás, impanati, accartocciati, cremosi, arrotolati e chi più ne ha più ne metta.
Ne incontro ovunque, a destra e a manca di ogni passeggiare, come se altro non ci fosse che ingurgitare, mangiare o, per i più raffinati: assaporare (to taste).
D'altronde, mai come in questo scorcio di basso (ma basso basso) impero, il culinario ha assunto l'improprio statuto di poesia, di atto e fatto artistico, con vari bellimbusti che a fatica mettono insieme due congiuntivi, ma fanno la spola tra talk-show, musei d'arte contemporanea e fiere del buon (cattivo) gusto, a inscenare la loro insipienza tra gli "Ohhhhh" stupiti delle madamoiselle che fanno le svenevoli davanti a un risotto alla triglia in spuma di champagne -altro che Walt Whitman, e non perché queste creature non abbiano a donare un qualche loro verso allo spettacolo della vita, ma perché, troppo spesso, il verso è solo un rutto di Alka-Seltzer per alleviare il peso di sbronze e indigestioni.
La terra sta affogando sotto il peso inverecondo di un consumismo devastante, che per servire una bistecca alla fiorentina sperpera qualcosa come quindicimila litri d'acqua, e noi ci trastulliamo con le bavette in crosta di amarena o simili minchiate alla lingua impronunciabili, figuriamoci al palato.
"Il troppo stroppia," recitava spesso mia madre, e quando uno stroppia poi perde di vista l'essenziale e vizi e eccessi finiscono per supplire, con l'extraordinario, al vuoto pneumatico di un ordinarietà che, annoiata, non sa più -appunto- che pesci (bolliti?) pigliare...