Ne sfiletto almeno tre al giorno in uno dei tanti baretti con tovagliette azul che espongono menù fisso a otto euro e cinquanta, mentre la sera, che a me sì viene cara, mi butto nei restaurant dove suonano dal vivo e il food più slow, la stanchezza del tanto camminare e la saudage del fado anticipano la culla al satrapo Morfeo.
Nessuna personale concessione al vivere notturno, alla movida, di cui odo, nel cuore della notte, inumane grida e vociare sguaiato di bande d'ubriachi che la dicono lunga su quest'altra mitologia da gioventù bruciacchiata che ha trasformato anche la notte in un sbraitare da stadio, senza pudore nemmeno per la luna.
("...o graziosa luna, io mi rammento che, or che volge l'anno, sopra questo colle, io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su questa selva siccome or fai, che tutta la rischiari...")
Anche se poi -a vero dire- una notte, complice l'arroz de marisco da digerire, mi sono spinto fino al porto in cerca di un frammento di buio che ancora si accompagni al sussurrare, e lì ho accolto i versi dell'Atlantico che entran prepotenti dalla foce del Tago e infrangono sul molo il loro poetare.
Ma non fu che un attimo, perché, già alla terza onda, il vetro di una birra scheggiò la battigia di cemento e risa sgraziate s'alternarono a una seconda e poi una terza bottiglia scagliata... -per altro, la luna, non batté nemmeno un ciglio.
Altro poetare, si dirà, altro verso aggiunto allo spettacolo della vita, come la contemporanea foga per l'arte culinaria, ma... come dire: non è la cifra del mio cantare. E poi, basta fare un giro dentro le cucine di qualsivoglia chef stellato per scoprire che, quei piatti, non sono affatto arte, sono solo imbellettati, come certe donne che impressionano sulle copertine dei tabloid ma, poi, tolte le protesi e le plastificazioni, non lasciano che un'impalcatura desolata.