Ecco: Lisbona è un'impalcatura desolata che da troppi anni non fa nemmeno lo sforzo di imbellettarsi.
Lisbona è una donna che ha perso il gusto di agghindarsi a festa, per sé, prima ancora che per l'orda di turisti che ogni giorno giungono a violarla.
Si dà così, spalancando le sue cosce di case abbandonate, con vetri rotti e tegole spezzate. Ne incontri ad ogni isolato, persino in pieno centro: case piene d'anima ma inanimate.
Forse per questo, mai come in questa città, ho visto così tante librerie: case, appunto, piene d'anima ma inanimate o, comunque, che necessitano della rianimazione immaginifica del volenteroso lettore che, immergendosi tra le righe, ri-anima il testo con ogni suo personalissimo pre-testo.
Mi sembra una buona metafora per dire di Lisbona: un romanzo che tracima suggestioni ma che necessita di essere rianimato.
Lisbona non la puoi semplicemente attraversare, la devi leggere immaginando, tra le righe, quello che la città (il testo) non ha o non ti dice. E forse è questo il segreto del suo fascino che, di primo acchito, non avevo colto: se vuoi apprezzare Lisbona non puoi lasciare che sia lei a raccontarsi, la devi accogliere in te, inventando, per te e per lei, una storia capace di riempire il vuoto che, comunque, ci abita.
(Ma non è proprio questo che hai sempre fatto in ogni pertugio di mondo che hai finito per visitare: dare un senso ad ogni tuo risveglio, tanto più forte quanto più le consuetudini ti allontanano da ogni sedante routine circolare?)
Per questo Fernando la gremì di personaggi, sgravandoli dalla sua psiche e sguinzagliandoli su e giù per i colli che la circondano (sette, come a Roma), ognuno a fare il suo dovere d'uomo visionario: cantare e raccontare quello che, dal suo piccolo pertugio, poteva osservare.
D'altronde, non è proprio Pessoa che ha scritto: "Il poeta è un fingitore. Finge così completamente, che arriva a fingere che è dolore, il dolore che davvero sente. E quanti leggono ciò che scrive, nel dolore letto sentono proprio, non i due che egli ha provato, ma solo quello che essi non hanno...".
Qual'è, dunque, il dolore che di questa città io sento e che non ho? Il dolore che devo fingere? Forse, è il dolore stesso per la vituperata poesia, questo millenario cantare senza canto, ora ridotto (quando va bene) a un strenuo biascicare tra una portata e l'altra.
Ma adesso smettila con 'sta lagna... S'ha da fingere?! Fingiamo!