...C'è caldo, dunque, che sembra giugno, e non è nemmeno marzo, quando, passeggiando lungo il Tago, m'imbatto in questo fiore che sboccia sciogliendo il piccolo coprispalle di lanetta che la restringe ai seni, affinché anche le braccia tocchino questo intrepido tepore che straluna.
Ha denti bianchissimi, che rimbalzano la luce intensa del meriggio e la irradiano attorno, creando un alone di magico mistero.
Quando sorride, sorride al sole, ma è il mondo che si ferma, contraddicendo Galielo e i suoi pari.
La guardo, mentre si accomoda e cerca una postura sul rigido giaciglio: scalza i texani di pellaccia e lascia che anche i piedi facciano capolino insieme a un piccolo tattoo attorno a una caviglia: una scritta o cosa simile, omaggio ultimo a un amore andato o solo ambito. Chissà...
Poi incrocia le gambe alla yogi, volge le mani al cielo poggiandole soave sulle ginocchia tonde, rincorre un equilibrio che forse manca, oppure che non basta all'immobile bellezza che trasuda.
Sarà per questo che ogni po' si divincola al meditare: rovista conferme nello specchio del telefono portatile, estrae una bottiglia, fa brevi sorsi (d'acqua -credo), spazzola i capelli con le dita a rebbi, accende sigarette...
Fuma male, come se dovesse ma non volesse. Si vede che quelle estroflessioni di carne pulsante e sangue compresso, non si combinano con tutto ciò che filtra. Sono labbra senza compromessi: ("el labio de arriba el cielo y la tierra el otro labio"), labbra che dicono senza freni e fanno senza dire. Labbra di una dea che si nutre di neutrini.
"Hai d'accendere?".
Son io che chiede, un uomo: bruno, italiano, un po' macchiato da questo sole che colora -o così mi immagino, proiettando me nel lui narrato, in modo da saldare la finzione.
D'altra parte, dal mio punto d'osservazione, sarebbe impossibile carpire. La distanza permette solo di cercare un senso nelle carezze del labiale, ma la lingua a me straniera lascia tutto al gioco dell'interpretazione, e poi c'è il vento che ci separa e fa ballare i suoni mischiandoli e storpiandoli in un vorticare di parole prive di semante.
Lei, però, alza il capo, lievemente, osserva, quindi cerca scavando qualcosa nella borsa e, infine, ecco che compare l'accendino. È qui che io intuisco il mio: "Hai d'accedere?"
Ecco allora che Zuleica sorride e solleva le braccia per porgere il fuoco... ma non ne son sicuro, perché già brucio nei suoi occhi e la fiamma, che pure si accende, non distinguo se sia il riflesso della combustione o il mio cuore che avvampa. Però il tabacco fa brace... di Marlboro, o cosa simile: Philip Morris, comunque. Tossisco.
Quanto tempo che non fumi. Millenni, credo. Tanto che manco ti ricordi se c'è davvero stato un di te fumatore: soggetto allampanato che ora fa un altro tiro e lascia che nuove parole escano espirando: "Come ti chiami?", oppure: "Ciao, io sono Ivano e tu?", o cose simili... Insomma, una nuvoletta di fumo che mai avresti osato, se fossi invero tu e non la tua finzione. Comunque non: "Grazie", perché lei ancora annuisce, lancia un sorriso che balugina e sibila: "Z-u-l-e-i-c-a," riempiendo il suo balloon di nicotina.
Zu... che?!! Sembra più il nome di una liquirizia che di un bipede esemplare della specie umana.
E, infatti, lei profuma come quei legnetti che mia madre mi comprava dal lattaio all'uscita di scuola e che, un estate, ebbi pure la fortuna di cogliere da un albero calabrese. Arriva fino a me e alle mie narici, con zaffate di vento che dal mare ogni tanto sbuffa: effluvi di pelle ambrata...
Da qui, presumo, inizi, e per davvero, la visita alla mia Lisbona: Zuleica.